In quanti modi diversi gli eschimesi chiamano la neve? E’ una domanda che uno studioso si faceva, tempo fa e a cui, retoricamente, poco dopo, egli stesso rispondeva. Nove, forse fino a dodici, neve appena caduta, neve di due giorni, neve antica…Quello che per noi è bianco tout court, per loro è varietà, differenza, ovvero, è un modo per parlarci di sguardi intensi, di intensità dello sguardo, di sguardo che guarda, sul serio, scavando, grattando, con analisi, con perizia, in grado di spremere dal bianco fino a dodici qualità della neve.

In quanti modi è possibile, allora, guardare il mondo, traguardarlo per conoscerlo, per assaggiarlo, per riprodurlo, al limite e per paradosso, per evitarlo?

A questa domanda, naturalmente, gli autori qui presentati non rispondono, hanno ben altro da fare, ben altro da vivere, concentrati nel loro sguardo personale, unico, diverso, fatto di conoscenze, di anni, di emozioni, di rabbia lunga e gioia breve, di vita, insomma!

Viene in mente quello che Calvino, nelle sue memorabili Lezioni Americane, diceva a proposito del rapporto della poesia del Leopardi con la luna: “…quando parlava della luna sapeva esattamente di cosa parlava…Ed il miracolo è stato di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare…” .

Il miracolo dei nostri autori è quello di avere, del mondo, uno sguardo a lunga conservazione, impastato, a volte e a seconda dei casi, a luce e chimica della luce o a segni grassi e forti come intonaci di muri, o a segni flebili e velati, come ali di farfalle fantasma. Uno sguardo che registra il mondo ed allo stesso tempo lo cambia, come tutti gli sguardi; uno sguardo che agisce come quei maghi della luce del cinema e del teatro su cose e uomini, che ad essi frappone veli, gelatine, fari dai nomi strani, al fine di intensificare la realtà, renderla più vivida e allucinata, più varia e strana più eterna e mutevole, come la vita, insomma!

Otto autori, otto sguardi.

Sguardi di-versi come folgoranti haiku giapponesi, sguardi fulminei di poesia distillata ed un pò aliena

Sguardi per-versi, pronti ad imbrattare di metafisica luoghi e paesaggi, friggendoli col Bacon e marinandoli in salsa Magritte.

Sguardi con-versi, ripiegati in se stessi, ma aperti, allo stesso tempo, all’universo mondo, dove gli opposti si uniscono senza soluzione di continuità, come nei segni impressi da un Escher costiero ed irrimediabilmente matematico.

Sguardi fra-versi, piccoli compendi di vita personale, messi ad asciugare al vento cristallino e sciroccato del mediterraneo.

Sguardi tra-versi, fatti di pochi colori, ridotti all’osso di bianco e di nero, ma densi ombre, all’ombra di occhi profondi ed intensi di chiese barocche.

Sguardo di Paladini Marco pittore di rossi grassi e vari come sassi, corposi di stucco, come intonaci scrostrati, di muri di immense e perdute città, dove l’immagine dell’ombra-sindone del Sacro Graal rimane stampigliata sul quadro della parete, bianca, sporca nera oscura, corrusca e di nuovo rossa, dove i muri, sempre loro, si piegano in se stessi, pronti a svolgersi in dittici, trittici e quadriportici strani e innevati.

Sguardo grandangolare di Vergani Piergiorgio, che guarda attraverso i cancelli di Xanadu, la mitica fortezza del Kane di OrsonWellesiana memoria, lucido allucinato fabbro-cantore di spazi cartesiani barocchi, dove ascisse e ordinate si piegano in volute forgiate a fuoco, nel tentativo di imprigionare spazi aperti, ampi di cielo e di prati imbevuti di nebbia e bruma.

Sguardo di Risi Angelomichele, pittore di spazi portatili, interni ricchi di materie, che creano al loro interno vaculi pieni di altre materie, costruzioni solide, camere abbarbicate al piano, ma pronte a liberarsi di esso, in bilico tra supporti, dove le ombre fanno il verso a se stesse tra olii e mancanza di luce. Tecniche miste di cucina pittorica, dove rossi di carne e argenti di pesce sfrigolano nel blu oltremare.

Sguardo di Morrone Vittorio obiettivo e binario. Luce ed ombra, bianco e nero, visione e non visione, aperto, chiuso, essere e non essere. Sguardo apparentemente bipolare, che invece indaga il buio, che riduce ai minimi termini il reale per definirne tutti i termini, tutte le sfumature. Sguardo che cattura calligraficamente gli arabeschi barocchi di una chiesa e/o di un volto di uomo e di donna, restituendone l’anima con intensità amplificata, poco attenta al superfluo, immersa fino al collo nell’essenziale.

Sguardo di Massanova Franco, pittore minatore, abituato a scavare, nel silenzio, in assenza di luci apparenti, con calma, con costanza, con rigore, nel buio relativo rischiarato dalla certezza che quel groviglio di nero, grattando, strappando, raschiando, a volte con entusiasmo, a volte con disperazione, con le unghie dell’anima, alla fine, sarà colore, ma colore profondo, sotterraneo, velato come un ologramma e tangibile come pietre preziose e allora, quel buio freddo di miniera, come d’incanto, sarà come la caverna magica di Aladino.

Sguardo di Peruzzini Pio, occhio per occhio mediterraneo, dove i cieli al cobalto, un po’ chimici, un po’ atmosferici, si insinuano tra massi e sassi, rocce e pietre aspre di piccole aspidi, monumenti di pergola, contraffortati e sbarbati dal vento incessante e profumato di mirto, all’ombra di agavi e ulivi ritorti, o riflessi da acque che scintillano placide di piccoli raggi al sole totale, o sputano spuma a un cielo plumbeo, oscuro e passante come in un film del Coppola sperimentale, mentre, vestendo alla marinara, piccole figure ed improbabili oggetti si perdono in spiagge senza fine.

Sguardo di Perrini Agostino, sguardo di pittore dall’alto, geografo di mari mediterranei di profondi blu prussiani e di cobalto, di gialli litorali d’olio e tuorlo, ma anche sguardo da dentro, oscuro di neri presagi, che giunge fin là, dove l’ombra si fa antro e soglia e poi figura, tra lettere smemorate e materiche e segni che vanno decisi e danzanti, tra arie che dirompono in frane di nulla.

Sguardo di Canton Giovanni pittore di fotografie, barbuto folletto in grado di sovvertire ordini e sistemi visivi. Egli intende intervenire, e lo fa da anni non sospetti, quando i sistemi digitali erano ancora di là da venire, sul corpo molle dell’immagine lucido-chimica della fotografia, mutandone lo statuto, con tocchi saggi di pittura, quasi a scalfirne il volto a volte un po’ muto, a volte un po’ demodé del B/N virato seppia di antiche moderne cartoline.


Salerno, 4 luglio 2005

Enzo Lauria